mercoledì 21 aprile 2010

Intervista a Maria Bresolin

Nata l'8 marzo 1909 a Pederobba (TV).

Nastro 1994/18 - Lato A                24 maggio 1994
    
Prima abitavo nella casa grande che c'è giù dagli scalini della chiesa di Pederobba, in centro paese.
Mi ricordo che ci hanno detto di scappare perché altrimenti ci avrebbero ammazzati tutti. Ricordo mia madre che ha detto: «Come faccio? Portarmi via tutti questi boce!» 
Eravamo in otto figli e in famiglia, tutti compresi eravamo in 48.
Siamo scappati e siamo andati a Bessica di Loria. Là ci hanno messo a dormire in una stalla in cui era stata stesa della bella paglia fresca, appena portata. Noi ci si siamo buttati giù ... e dove avremmo potuto distenderci altrimenti? E là ci siamo riempiti tutti di sterco, perché prima vi era passata una gran squadra di militari e vi aveva fatto i propri bisogni; poi erano stati ricoperti con la paglia e noi vi ci siamo distesi sopra ... e poi in qualche modo ci siamo puliti e cambiati.
Tutta la famiglia di 48 persone è partita con due carri, trainati da un cavallo e due buoi. Abbiamo caricato più che abbiamo potuto e il resto lo abbiamo lasciato a casa; abbiamo perso tutto.
Siamo partiti al mattino presto, era passato un militare ad avvertirci di partire; non so chi fosse.
Poco dopo essere partiti mia madre è tornata indietro perché si era dimenticata di prendere la macchina da cucire e in quello che stava per entrare nel grande cortile di casa, ha fatto appena in tempo di prendersi questa macchina da cucire che è capitata una bomba proprio in mezzo al cortile provocando un enorme buco.
Ci abbiamo messo un giorno ad arrivare a Bessica, via Crespano, da Pederobba. 
Mi ricordo che avevamo una zia (Teresa), poveretta, che rivolta a noi che eravamo tutti piccoli sotto i dieci anni, ci ha detto: «Bisogna che vi faccia un po' di caffè». «Si sì zia, fallo», le abbiamo detto. Ma ha sbagliato il vaso e invece di prendere caffè ha preso tabacco. È stata una cosa terribile e abbiamo dovuto essere portati tutti in ospedale; robe da crepare.
Siamo rimasti fermi giusto tre giorni a Bessica, e appena ci siamo ripresi siamo partiti. In ospedale ci hanno fatto vomitare tutto.
Ci siamo diretti verso Ferrara e ci siamo fermati là vicino, a Francoìn (Francolino), un paese appena di là del Po. Abbiamo camminato insieme ad altre famiglie, e noi boce ci facevano un poco stare caricati sul carro e un poco camminare a piedi come tutti gli altri.
A Francolino ci hanno sistemati abbastanza bene, su delle brandine piccole, magari in due su una, noi bambini. Tutte le persone della nostra famiglia sono rimaste insieme, nello stesso edificio.
Le nostre 48 persone componevano 8 nuclei familiari (8 fratelli, ciascuno con moglie e figli). Il capofamiglia era Giovanni Bresolin e la parona di casa sua moglie è morta giovane e io non l'ho conosciuta.
La famiglia non aveva nessun soprannome, solo Bresolin. Io invece ho sposato un Gianni (soprannominato Jane) e poco tempo fa sono venuti a trovarci dei signori i cui bisnonni di cognome Gianni erano emigrati alla fine del secolo scorso in Brasile. Da una ricerca sull'archivio parrocchiale avevano trovato che il fratello del loro bisnonno era partito a suo tempo per il Brasile.
Gli otto fratelli si chiamavano: Giacomo, il padre di Maria ... poi Beniamino, Nazareno, Angelo, Luigi [...]. Erano tutti contadini e lavoravano molta terra, non in proprietà ma in affitto a generi, non a soldi che non ce n'erano, sotto le Opere Pie (ospedale locale) e la Prebenda Parrocchiale. 
Coltivavamo di tutto, anche frutta e verdura, ad esempio ciliegie, meloni, frutta in quantità, uva americana e di tutto, granoturco e frumento, spagna (erba medica) per le bestie (10-12 in tutto).
Siamo partiti profughi con due carri assieme a tutte le famiglie del paese, via per la direzione Crespano e Bessica, ma poi un po' alla volta ci siamo divisi, le varie famiglie. Anche il parroco è partito.
Le case sono state tutte distrutte e poi noi al ritorno le abbiamo rappezzate in qualche modo, riuscendo a recuperarle, anche quelle molto vecchie.
A Francolino siamo rimasti fino alla fine della guerra mentre il mio futuro marito, sempre da Pederobba, lo hanno a Caccamo, in Sicilia. Si chiamava Gianni Giacomo e a Caccamo ha trovato anche da lavoricchiare presso la locale caserma dei carabinieri.
A Francolino invece aiutavamo le famiglie del luogo nei lavori dei campi, e qualcosa si prendeva. Si prendeva anche il sussidio.
Siamo stati sistemati in una casa di contadini di cui non ricordo il nome. Io non andava a scuola (ho fatto solo la prima elementare).
Come profughi eravamo trattati abbastanza bene. Non ho un ricordo particolarmente brutto. Avevamo trovato tutti posto in questa grande azienda.
Alla fine della guerra sono rientrati per primi gli uomini a sistemare le case. Quando anche noi siamo ritornati le case erano comunque tutte a pezzi, mezze tagliate, la chiesa rovinata, il paese rovinato.
Quando il resto della famiglia è rientrato in paese era passato molto tempo dalla fine della guerra.
Ho iniziato a lavorare subito dopo il ritorno, a dieci anni. Qua da Pederobba eravamo in 9 ragazze, me compresa, che si andava al Canapificio Veneto di Crocetta. Le altre mie compagne, paesane, dicevano «che pecà che me fa che a toséta...!», perché ero la più piccola di tutte. Mi ricordo che per abbreviare la strada si veniva giù lungo la Brentella. Io ero l'ultima del gruppo, perché ero la più piccola e andavo più piano. Una volta stavamo ritornando a casa, e io ero dietro ... ho perso uno zoccoletto, non scarpe, si pensi, ma zoccoli ... lungo questa Brentella (c'è la strada che porta su fino alla stazione). Dietro a me c'era un ubriaco, cioc desfà, che ha fatto per corrermi dietro; allora le altre ragazze mi incoraggiavano a correre più forte e a raggiungerle. Così ho perso lo zoccoletto perché lui lo ha preso e buttato in acqua e ho dovuto arrivare a casa con un piede scalzo.
Le altre ragazze che da Pederobba andavano a lavorare a Crocetta erano: Guadagnin Maria, le sorelle Busello Maria e ... , Guadagnin Maria un'altra e non parente della prima, Gina Bresolin detta Gira...
Ho trovato il posto in canapificio perché c'erano due ragazze già a servizio dal direttore del canapificio. Io ho domandato a loro di trovarmi un posto in fabbrica e loro lo hanno domandato al direttore che mi ha accettato.
Dormivamo dalle suore a Crocetta, vicino alla chiesa, durante la settimana e si tornava a casa al sabato di sera. Ero la più piccola della fabbrica, tanto che alle suore facevo pécà e allora ad ogni pasto mi mettevano da parte un frutto, così io me lo mangiavo al pomeriggio.
In fabbrica si facevano rochèi di canapa. Ci saranno state 2-300 persone, in gran parte ragazze, ma c'erano anche degli uomini.
Il direttore una volta mi ha messo in un posto, a spingere un carrello, manovrarlo di qua e di là. Una volta senza volerlo, ho investito col carrello il direttore che era dietro una curva. Avevo paura di essere licenziata e mi sono raccomandata col direttore di non esserlo, perché non avevo fatto apposta e oltretutto il direttore era piccolo e nella curva io non l'avevo visto...
Il lavoro era faticoso e io era stata messa nella «sala gèmi» [gomitoli] dove si prendeva meno di tutti perché era come il lavoro di apprendisti... 
Allora io mi sono licenziata e sono andata a servizio per sei anni a Venezia, in piazza San Marco nella famiglia Benvenuti (c'erano una mamma e una figlia da sole con la figlia da sposare). Poi sono andata a Roma per altri sei anni e fino a venti giorni prima di sposarmi, mi sono sposata a 25 anni. A Roma ho lavorato in un convitto dell'Università Gregoriana, retto da suore. Noi - eravamo una squadra di ragazze - servivamo da mangiare.
Poi in questa Università ci sono andati anche tre miei figli a lavorare Giovanni, Claudio e Angelo. Anch'io ho nove figli, e due morti che fanno 11.
Nella seconda guerra andavo a portare da mangiare ai partigiani fino in Grappa e non ho mai avuto problemi, non sono mai stata presa.
I partigiani erano tutti ragazzi del paese, la maggior parte, che non avevano voluto fare il militare e noi gli si portava quello che veniva dalla campagna.
Interviene il figlio. Anche allora c'erano partigiani e partigiani. Da come me la raccontava mio padre non è come la raccontano certi altri e anche la televisione; qua cercavano di salvare quel poco che c'era da salvare: la pelle propria e il paese.
I tedeschi hanno bruciato il forno di Guadagnin Guido detto Cincin a Pederobba, che allora si trovava sulla strada che va su alla colonia. Era il forno che serviva a tutto il paese. Anche adesso in paese, ma in un altro posto lungo la strada principale, c'è ancora il forno degli eredi.

Da profughi, ci è arrivato un telegramma che annunciava che era morto il cognato Giuseppe Gianni a causa di una polmonite; era militare e poi è morto a Pisa.
Da profughi stavamo abbastanza bene, non ci siamo ammalati e non abbiamo preso la spagnola.

Ci spostiamo fuori casa. Osservo gli edifici del piccolo borgo, in pietra. Alcuni con pietra rossa... 

Ad esempio nella nostra casa il pezzo ricostruito dopo la guerra è in pietra rossa, mentre quello più antico è in sassi del Piave e altre pietre. Anche il campanile - nuovo - di Pederobba è costruito con tutte pietre portate giù dalla montagna co a mussa de legn [una specie di slitta trainata a mano - con due maniglie - da due uomini posti ai due lati del 'timone'; in famiglia hanno la foto].
Una volta avevamo tante ciliegie, sulle rive lungo i campi qua vicino, e le vendevamo. Poi, ultimamente, appena venivano alcune gocce di pioggia si spaccavano tutte e allora abbiamo levato gli alberi perché non le voleva più nessuno. All'epoca si vendevano soprattutto al mercato di Montebelluna, dove erano portate con carretta e cavallo. Ne avevamo di quelle file [di ciliegi] che facevano voglia! e non gli si faceva alcun trattamento.
Io ho avuto 11 figli, uno ogni anno, e mi passavano il latte artificiale. Non posso dire altro che bene di Mussolini!. Mi hanno sempre passato il latte; il mio non bastava perché andavo a darlo anche agli altri, facevo la balia...

Nastro 1994/10 - Lato B (ritorno per precisazioni il 2 giugno 1994)

Residuati bellici della prima guerra, anche adesso se ne trovano. Si sentono a volte dei colpi ... sopra la colonia c'è una valle e là quando trovano queste bombe le fanno sparare.
C'erano molti ricoveri nella montagna.
Un po' tutti nel paese si arrangiavano a raccogliere residuati.
Interviene il figlio. Io mi ricordo che fino a trent'anni fa venivano per le case a prendere su tutto, anche la pelle degli animali. Noi dopo un gran temporale si andava su nelle valli e là si trovavano cartucce, baéte de pionbo, bombe, e poi le si vendeva.
Su da noi Bresolin, dice Maria, sulla nostra terra in montagna che si chiama Farnède - sarà 2-300 metri da qua in linea d'aria, verso il Monfenera - là c'erano due tre ricoveri dove andavano dentro i soldati. Ora è pericoloso entrarci. Sono fatti bene, in sè, tutta roccia, ad arco ... 
Da boce si andava dentro [interviene il figlio] ... ce n'erano moltissimi di ricoveri, su di qua, fatti ad arco, si inoltravano anche 40-50 metri nella montagna. Là i soldati dormivano e i contadini poi li utilizzavano come "frigorifero", nel senso che d'estate quando andavano in montagna a lavorare vi mettevano al fresco l'acqua e la roba da mangiare.

Nastro 1994-22                     Lato A

Aggiunte e precisazioni, 2 giugno 1994

Maria non ricorda in che ospedale sono andati, quella volta del tabacco...
A Francolino sono arrivati sempre con le loro bestie, poi non sa che fine abbiano fatto, certo non le hanno più riportate a casa.
Durante il viaggio loro piccoli si davano il turno sul carro, «se ghe faséa pecà». Un mio cugino aveva e buànse (i geloni) e allora si davano il turno...
La nonna si chiamava Luigia [...]
Il figlio della sig.a Maria che interveniva l'altra volta si chiama Claudio ed è senza una gamba (persa in un incidente in moto) [...]
A Francolino non ricorda il nome della famiglia in cui erano ospitati. Erano in sei-sette in una stalla; tre quattro in un'altra famiglia; altri tre quattro in un'altra ancora «e mia zia che non aveva figli (la zia Teresa) ci "dirigeva", sorvegliava un po' tutti passando a vederci. Ha sbagliato però a fare il caffè; caffè e tabacco erano in due vasi uguali e si vede che sbadatamente lei nella confusione ... e per poco crepavamo tutti».
Le ragazze con cui andava al Canapificio erano: Busnello Maria (ora in Australia), Guadagnin Maria, Bresolin Gina e Rina, Giason Maria e Giason Isetta (erano le due ragazze che trovarono il posto a lei). Lei rimase un anno e mezzo al canapificio... «ma prendevo troppo poco, ero senza mamma. Mi ricordo che ero in stabilimento e sono venuti a chiamarmi quando stava per morire e mio santolo [padrino] mi ha portato su con cavallo e carrozza. Sono andata di corsa in ospedale e mia mamma non ha fatto in tempo a far altro che prendermi con una mano così e dire «basta, go caro de verte vist». Si chiamava Maria (Marietta) Parisotto ed è morta partorendo un figlio che è sopravvissuto 40 giorni, accudito da mia zia senza figli. Il dottore l'aveva avvertita, non lusingatevi, non vive. È nato in mezzo a un'emorragia e dopo 40 giorni, una mattina - dopo che io e una mia sorella più vecchia che adesso è morta eravamo state una per parte ai lati di questo bambino tutta la notte, perché mia zia aveva bisogno di riposarsi - alla mattina lo abbiamo trovato freddo. Non le dico cosa abbiamo provato... Gli avevamo già dato il nome di Giovanni».
Veniva allattato con latte di casa, avevano bestie.
Latte ne portavano anche in latteria, quella che c'era a metà stradone per andare in colonia e ora non c'è più.

In questa colonia io sono andata a servire anche là, dopo sposata. Andavo a rifare tutti i materassi. Eravamo in dodici ragazze a servire (per 160-170 boce che venivano tutto l'anno, ma d'estate ancora di più); e io alla sera, prima di andare a casa, a volte, mi portavo a casa i materassi.
Io tiravo fuori la crine, oppure la lana, e li facevo oppure li rifacevo. Ho sempre lavorato con i materassi, fino a ieri l'altro! e ancora lavoro. La macchina l'ho comperata a Possagno; si aveva amicizia con un vecchiotto che ormai non lavorava più, e da quella volta uso sempre quella. Invece la mia tósa se ne è fatta fare una uguale ma elettrica e mentre io ci metto tre ore a fare un materasso (perché sono 12-13 kg), lei in 5 minuti lo fa fuori. "Far fora" la lana infeltrita, ingrumàa dopo anni di uso.
Iniziavo alle 4 del mattino fuori nel cortile. Lasciavo un giorno al sole la lana e poi la rimettevo nel materasso, così perdeva l'odore e la polvere. 
Ne ho mangiata della polvere io! E adesso è mia figlia che lavora per tutti (aiuta anche nel campo sportivo, la festa dei boce); lei usa la macchina elettrica.
Io sono rimasta a servire per sette anni a Venezia. Avevo conosciuto anche un altro ragazzo, anche più ricco, ma mi sono innamorata di questo e ho lasciato l'altro. Lo avevo conosciuto qua in paese e lo incontravo una volta al mese quando avevo il giorno libero. A me andava bene così.
Ho lasciato la famiglia di Venezia 20 giorni prima di sposarmi. Mi volevano bene come papà e mamma. Poi ne ho trovata un'altra di Treviso, in piazza Duomo: la signora Benvenuti Elisabetta che aveva 90 anni.
Di tutti questi lavori fatti non ho preso neanche un contributo pensione.
È capitato che dovevo andare a trovare i figli in Canadà e proprio all'ultimo giorno ho preso 400 mila lire che avanzavo dall'ospedale di Montebelluna.
Lavoravo sia per privati che per enti.
Sono andata in Canada con l'aereo ... e andrei via anche adesso.
Ha avuto 11 figli di cui 9 vivi. Tre figli sono in Canadà: Leone, Giovanni, Luigia (Ginetta). Sono stati qua tutti e tre quest'estate; abitano a Toronto, Ontario.
Ora prendo la sola pensione dei contadini. Non sono mai stata in regola neppure all'Università Gregoriana di Roma.
Solo a Crocetta nello stabilimento ho preso le marchette; solo che prendevo poco e poi i miei fratelli più piccoli - che non sapevano cosa fossero questi bollini - li hanno distrutti tutti, così ho perso tutto.
Mio marito Giacomo era partigiano. Erano in tanti qua a Pederobba, che nessuno sa quanti. Erano scappati; anche qua in casa ce n'era uno che si era nascosto due ore prima  - scappando in montagna anche quello - e poi sono venuti i carabinieri a cercarlo ma lui era già scappato in montagna. Nessuno di loro è morto, in montagna.
Sono andata anche a far la balia: mia zia mi diceva sempre che avevo un secèr (secchiaio) di latte. Sono andata a dar da mangiare alla figlia del direttore dell'ospedale e al figlio di un altro impiegato sempre dell'ospedale. Quando andavo su (dopo che avevo dato il latte ai miei), all'ospedale mi dicevano a volte che il loro bambino aveva appena preso sonno. Allora io dicevo che sarei tornata a casa, così loro mi preparavano la pastasciutta, il burro. Io mi levavo il latte ... e in un attimo che mettevo la mano tutti i dottori mi guardavano e mi dicevano «ma guarda che roba...!» e in un attimo ne veniva fuori un tazzina e la mettevano via per quando la bambina si sarebbe svegliata. [...] Non c'era nessun'altra donna in paese che faceva quel mestiere. Non prendevo soldi, comunque, ma solo roba da mangiare, in abbondanza, 'na vera grassia del Signor.
Lo stesso succedeva con le dodici ragazze che lavoravano in colonia e che erano "delicate" sul mangiare e spesso lasciavano là la roba. Allora io, col permesso della superiora, passavo e portavo a casa tutto quello che era rimasto. A casa avevo chi avrebbe fatto festa: i bambini li trovavo tutti in riga che mi aspettavano che tornassi.
Mi è morto un bambino di 40 giorni da un colpo di tosse pagana [t. cattiva, pertosse], e si può dire che ne sia morto uno per ogni porta, a Pederobba; e una bambina è morta di polmonite fredda, senza febbre. [...] 

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